Milano -
Nonostante il silenzio che da un po’ di tempo a questa parte quasi sembra
averlo fatto scivolare nel dimenticatoio se non addirittura nell’oblio, il
fenomeno mafioso e malavitoso in generale che inquina il nostro territorio, è
tutt’altro che estirpato.
A
differenza di alcune decine di anni fa, quando le gesta di Giovanni Falcone e di chi
ha dato la propria vita nella lotta contro la mafia, hanno riempito le pagine
dei quotidiani e risvegliato l’orgoglio della parte sana della Sicilia, oggi
passano quasi in secondo piano quegli atti attraverso cui la parte peggiore del
Sud prova ad infangare ed umiliare chi invece prova ad emergere.
Perché a
dispetto di quello che i media di questo regime intendono far passare, in
realtà è sempre necessario tenere alta la guardia contro l’arroganza di mafia,
camorra e tutte quelle organizzazioni criminali che – con la complicità della
parte marcia delle istituzioni – rappresentano un altro ostacolo da superare
per la nostra terra.
La storia
che raccontiamo è quella di Gianluca Maria Calì, imprenditore
palermitano che da alcuni anni sta combattendo strenuamente una lotta di
libertà e di giustizia contro chi in tutti i modi intende arginare chi con il
proprio coraggio vuole dare un futuro ed una speranza alla propria terra. Una vicenda
fatta di minacce di estorsione ed autentici atti di intimidazione, secondo
quelli che sono i canoni del classico repertorio mafioso, nei confronti della
sua attività commerciale e dei propri cari, quella vissuta da Calì. Hanno fatto
molto rumore le denunce e la rivolta degli imprenditori di Bagheria e dintorni
contro l’arroganza dei boss locali anche nei media nazionali, nei giorni
scorsi. L’odiosa pratica del pizzo sbattuta di nuovo in prima pagina, a
testimonianza che la criminalità organizzata è tutt’altro morta, a dispetto sia
della pesantissima crisi economica che si trascina ormai da quasi 10 anni che
dei recenti tragici eventi, legati a ciò che sta accadendo in Siria.
L’esperienza
vissuta da Calì è diventata un libro intitolato “Io non pago”, presentato stasera nel capoluogo meneghino, alla
“Casa dei Diritti” scritto da Francesca Calandra, psicologa
clinica e membro dell’International
Society for Criminology, ed Antonino Giorgi, psicologo clinico e
di comunità e titolare dei laboratori alle Facoltà di Psicologia e Scienze
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Anche se
durante la presentazione del libro, sono stati raccontati alcuni aspetti della
sua vicenda, al limite del paradossale. “Della
storia di Gianluca Calì – puntualizza Jole Garuti, vice presidente dell’Associazione “Saveria Antiochia –
Osservatorio Antimafia” -, sono molte
le cose che mi hanno davvero colpito. Ad esempio, la totale ignavia ed
indifferenza di chi ha assistito senza nemmeno muovere un dito, quando all’interno della concessionaria di
sua proprietà, alcune automobili presero fuoco quasi come se si trattasse di
una fiction. O magari l’interrogatorio durato addirittura 7 ore, quando Calì
denunciò per la prima volta l’accaduto ai carabinieri, che quasi non credevano
a quanto gli era stato raccontato. Ed infine, i momenti in cui ha esposto a
grave pericolo l’incolumità personale e quella dei propri cari”.
“A me ha molto colpito – ha
dichiarato Gianantonio Girelli, Presidente della Commissione Antimafia
della Regione Lombardia - l’immagine dei
5 milioni di siciliani contro quei 5.000 mafiosi, che soffocano quella
meravigliosa terra. La lotta contro la mafia, la sacra corona unita, la camorra
e la ‘ndrangheta deve continuare con maggior vigore. Anche se, smentendo questo
dato di fatto, in questi ultimi anni sono calate le denunce per usura ed
estorsione contro le “persone note” e questo non è certo un buon segnale perché
sembra quasi che stia passando un messaggio di terrore che attanaglia gli
imprenditori. Voglio però sottolineare l’esempio di Calì per combattere questo
fenomeno, come attesta l’apertura dei tanti sportelli antiusura sul nostro
territorio”.
Lo stesso Calì ha poi parlato della sua storia. “In questi anni ho sempre denunciato –
ha esordito - qualsiasi tentativo di
avvicinamento che ho ricevuto dai mafiosi, così come ci tengo ancora una volta
a ribadire che non ho mai pagato nemmeno un centesimo, a nessuno. Da un lato ho
ricevuto il sostegno di quella parte delle Forze dell’Ordine che ha capito la
gravità della situazione in cui mi sono venuto mio mlagrado a trovare, ma
dall’altro ho dovuto purtroppo amaramente constatare come certe istituzioni non
abbiano mai beccato questi farabutti! Così come non mi sia stato neppure
riconosciuto il diritto al risarcimento, dovuto a chi ha subito le minacce di
estorsione. E questo nonostante che un provvedimento della Regione Sicilia
invece mi considerava vittima della mafia. Ho subito un vero e proprio pugno
nello stomaco – ha poi proseguito duramente – quando quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggermi, in realtà
mi hanno abbandonato. Al commissariato di Polizia di Porta Genova qui a Milano
mi sono sentito dire che non c’erano gli estremi per la denuncia di estorsione,
e la cosa mi ha fatto assai male. Solo in un momento successivo, quando la
situazione stava precipitando e c’era un reale e tangibile pericolo per me,
sono stato incluso nel programma di protezione. Per non parlare del
provvedimento poi rivelatosi illegittimo degli uomini del Corpo Forestale dello
Stato, quando ho acquistato la casa di un ex boss mafioso. Sembra quasi la
sceneggiatura di una fiction, ma credetemi non lo è. Mi sono pure dovuto sorbire
la macchina del fango, solo perché adesso vado in giro con un’auto blindata che
non è nemmeno la più bella che ho, ma che mi serve solo ed esclusivamente per
proteggermi. Mi rendo conto che sto sulle scatole a quelle persone che non
vogliono lo sviluppo della Sicilia, che invece
è una terra che ha davvero tutto per emergere. Abbiamo la necessità, ognuno nel
proprio piccolo, di fare ciascuno il proprio dovere, divulgando a tutti i
livelli la mentalità della legalità. Partendo anche da cose che piccole non
sono affatto, come il furto dei motorini in cui purtroppo in certe parti della
Sicilia, ancora si chiede il “cavallo di ritorno”. Siamo in un momento storico
assai importante, come ormai stanno capendo anche i nostri figli. La cosa che
mi inorgoglisce è l’aver visto il modo con cui questa vicenda abbia smosso le
coscienze, come mi ha confermato quella bellissima manifestazione che alcuni
giorni fa ha coinvolto tutta la città di Bagheria”.
Poi la
proposta rivolta alle istituzioni, ovvero dare la possibilità di mettere gli
imprenditori colpiti dal “pizzo” nelle condizioni di poter acquistare il
patrimonio espropriato alla mafia. “Lo
Stato non mi ha mai risarcito – ha osservato Calì - del fatto che, in seguito all’incendio della mia concessionaria, ho
dovuto licenziare 24 persone, e mi sono sempre chiesto perché alle vittime del
racket e dell’estorsione non venga data la possibilità di entrare in possesso
dei beni espropriati ai mafiosi, che pure rappresentano una grossa palla al
piede per le nostre istituzioni. Lo dico non certo per arricchirmi, bensì per
far passare il messaggio che in questo modo la mafia è colpita in ciò che più
le interessa, e chi da essa ha subìto un danno patrimoniale, alla fine se lo vede
risarcito”.
“Raccontare la storia di Gianluca – ha confermato
Ismaele
La Verdera, collega di Telejato,
che ha seguito sin dall’inizio questa sconcertante ed incredibile vicenda – non è stato per niente facile, considerando
che ha avuto il coraggio di denunciare mafiosi come Flamia che non si fanno
certo scrupoli nell’ammazzare le persone. Così come, al pari di Falcone,
Borsellino ed Impastato, Calì ci tiene a sottolineare che non è un eroe come
tutti giustamente consideriamo chi lotta contro un nemico così potente. Come
questi illustri personaggi, anche lui è una persona normalissima, ognuna con le
proprie paure e passioni. E questo spiega il perché del suffisso “stra” davanti
alla parola “ordinaria” nel titolo di questo libro. Certo, fa rabbia vedere
ancora in libertà il capo del mandamento di Bagheria per un assurdo cavillo
burocratico. Ma tutti abbiamo il dovere di non lasciare da soli chi ha il
coraggio di denunciare e dire basta all’arroganza mafiosa!”.
Insomma, a
distanza di oltre 20 anni dai tragici fatti di Capaci e di Via D’Amelio, le
istituzioni itagliane continuano non solo a non proteggere, ma anche a tenere
rigorosamente isolato, chi prova a denunciare, combattere ed esporsi in prima
linea contro la mafia e tutte quelle organizzazioni criminali che in realtà
rappresentano il suo braccio armato nel Mezzogiorno. Il martirio delle vittime
di quei cancri di cui sopra rischia di essere un patrimonio dissolto nel nulla,
fino a quando l’ambiguità dei rapporti fra essi e lo Stato non saranno mai completamente chiariti!
La realtà
parla di una mafia, di una camorra e delle altre organizzazioni malavitose che
tanto letame hanno sparso in faccia al Sud, che in realtà si sono ramificate
anche al Nord, ed in particolare in contesti dove si sviluppano business di una
certa importanza come Milano.
A fare dunque
da contraltare agli sforzi di chi giorno dopo giorno è in prima linea nella
lotta contro il crimine (organizzato e non), ricevendo in cambio una paga da
fame, ci sono quelle stesse istituzioni che dovrebbero garantire giustizia e
certezza del diritto. Ma che nel concreto fanno tutt’altro, così come da sempre
abbiamo raccontato e denunciato!
Francesco Montanino